Quando ho visto per la prima volta questi disegni e acquarelli ho pensato che parlassero di una trasformazione, di un tentato e ricercato equilibrio tra una condizione ideale, immaginata, e una condizione reale, vissuta. Il secondo pensiero, non razionale, non consapevole forse, che ho avvertito è che tale trasformazione non fosse solo la trasformazione dei nudi presenti nei disegni di Claudia, una trasformazione di donne, dunque: era invece una trasformazione con la quale io stesso potevo immedesimarmi, una mutazione che mi riguardava, nella quale mi sentivo implicato.
Insomma, era in qualche modo anche la messa in scena di una trasformazione, il riflesso di alcune emozioni che raccontano la ricerca di equilibrio, quel bisogno di equilibrio, a cui noi tutti siamo continuamente chiamati, da cui tutti noi non possiamo prescindere.
La cosa su cui invece non avevo riflettuto allora è che questo equilibrio Claudia lo trasmette non solo attraverso le sue opere, ma anche attraverso la sua storia. Per quello che so, lei ha sempre praticato le arti figurative. Poi, a un certo punto, il lavoro, gli impegni, la famiglia l’hanno allontanata dalla pratica. Finché qualche anno fa, complice la compagnia di alcune persone con cui ha avviato le sketch night, il disegno è tornato come pratica, come azione, come piacere di ritrovarsi a disegnare.
A cosa serviva? Aveva senso? Erano dipinti di valore? Era un gesto ridicolo? Una perdita di tempo?
Non so se Claudia si sia posta queste domande. Io sono il tipo di persona che se le sarebbe poste. Anzi, avrebbe passato mesi e anni a cercare le risposte più giuste, più veritiere, più appropriate… una fatica che mi avrebbe tenuto lontano per sempre dalla pittura. Il mio modo di procedere ricorda quanto la scrittrice Nancy Huston, allieva di Roland Barthes, diceva del suo mastro, il grande studioso di linguistica e letteratura a proposito del “dramma personale” alla fine della sua vita: Barthes “avrebbe voluto assolutamente scrivere un romanzo, ma restò sempre bloccato nella scelta dei nomi da dare ai personaggi”.
Ecco, da maniaco dell’interrogativo sul senso delle cose, se dovessi proporre una risposta unica per tutte le domande che elencavo poco sopra la prenderei in prestito da Nietzsche quando scrive: «Soprattutto, e prima di tutto, le opere! Cioè esercizio, esercizio, esercizio! La fede a ciò necessaria verrà al momento giusto – siatene certi!»
E così – a ben pensarci – la storia di Claudia Borgioli ci racconta anch’essa un cambiamento: il cambiamento di una persona che ha rinunciato a una passione per ragioni di forza maggiore e che ha avuto la capacità a un certo momento di mettere in pratica delle strategie con cui ritrovare questo suo vecchio amore. Una strategia fatta di azione, di esercizio, come raccomanda Nietzsche.
Se guardiamo alla cosa da questo punto di vista, mi sembra dunque una storia – quella di Claudia e quella che ritroviamo nei suoi dipinti – che ci riguarda tutti in qualche modo. Mi fa venire in mente il libro del filosofo Peter Sloterdijk che si intitola Devi cambiare la tua vita e che insiste proprio sull’importanza dell’azione come unico antidoto contro la disfatta dell’eterno ritorno, della monotonia, – e io aggiungo delle offese dell’invecchiamento –, l’unico antidoto possibile è l’exercitium, l’essere in azione, l’esserci realmente.
Ora, queste figure delle opere di Claudia possono sembrare tutt’altro che in azione. Le vediamo contemplative, rilassate, in otium. Ma a mio modo di vedere è proprio il contrario: sono figure che hanno l’eleganza che esprime chi è già in movimento, chi ha un movimento interiore, maturato, assimilato, vissuto, sperimentato.
È la posa del Buddha, se posso spingermi fino a un simile paragone. È pacatezza, serenità, consapevolezza. Non resa, non sonnolenza, non immobilismo.
La bella nudità fisica dei disegni di Claudia si sposta rapidamente verso una dimensione psichica, interiore, che prescinde dal genere, dal sesso dei soggetti. Ritrovo nelle opere di Claudia il racconto di una certa fisicità e di una certa dimensione psichica. Lo stare con sé stessi, con il proprio corpo, sentirne la compagnia, riconoscere la sua potenza nel trasmettere il mondo con cui mi percepisco e penso. È il corpo che mostra il timore della propria diversità (le angherie del tempo e lo scostarsi dalle bellezze convenzionali), ma anche il coraggio, l’allegria di scoprire l’eleganza che possiamo generare. Si crea così una tensione che rapisce. Una tensione che ognuno di noi riconosce per sé e che vorrebbe mantenere in equilibrio. Guarda la stessa locandina per esempio. Il seno non canonico, il gomito quasi deformato e la bellezza dello sguardo sereno e meditativo. È un contrasto bellissimo.
Questa ricerca di armonia con sé stessi sembra – ma qui dovrei chiedere al critico per esserne certo, o forse al cognitivista, al neuroscienziato – sembra giungere attraverso l’osservazione delle asperità, delle inquietudini: la linea, i tratti a volte spigolosi, le forme in certi casi dilatate e talvolta quasi deformi. E aggiungerei anche l’esaltazione dell’eccentricità: sono figure non banali, con fisionomie che non richiamano un concetto universale di bellezza. Proprio questa bellezza reale e non meramente ideale sembra emergere non tanto dai lineamenti e dalle proporzioni fisiche regolari (ideali, appunto), quanto dall’equilibrio interiore portato dalle posture consapevoli della propria lontananza dai canoni estetici collettivi e allo stesso tempo ritrovata bellezza nella serenità con cui questa consapevolezza è vissuta.
Si crea così una tensione tra apparente imperfezione e forza seduttiva quale riflesso di una fisicità interiore che colpisce e affascina.
Questa ricerca di un corpo in equilibrio sembra emergere attraverso la linea: la si vede nei capelli, ma anche nei lineamenti che seguono percorsi non scontati, quasi un’esplorazione geografica. “In effetti” – mi dice l’artista – “inizio a tracciare la linea partendo da un punto dell’immagine più vicino a me (per prossimità, o attrazione, gravità) e proseguo istintivamente, senza sapere dove mi condurrà. Da un punto di vista psicologico questo corrisponde a una perdita di controllo che genera, anche in me che disegno, una maggiore emozione, un senso di vertigine: non so se il disegno riuscirà, non so dove andrò a finire, quale sarà l’effetto finale, neanche se mi starà nel foglio. Infatti tanti sketch li butto via o risultato amputati. Questo è il mio concetto di riscrittura.”
Sembra un viaggio nell’inconscio questa ricerca del corpo disegnato. Del resto, come diceva il filosofo Schelling: “L’arte deve iniziare con consapevolezza e terminare nell'inconscio, cioè oggettivamente; l’Io è consapevole rispetto alla produzione, inconscio rispetto al prodotto”.
Intervento di Emanuele Coco, scrittore e storico della scienza, in occasione dell’inaugurazione della mostra personale di Claudia Borgioli: IN EQUILIBRIO fra ideale e reale / una riscrittura del corpo
26 ottobre 2019, piazza Santa Croce, Firenze